La donna salentina e la tessitura

telaio antico salentino, Santa Maria di Cerrate

 

Filare, ordire, tessere, tre azioni che nel loro significato riportano a tempi lontani e si legano anche agli animali più strani, al ragno che fila e tesse la sua tela scintillante nel sole, al baco che tesse il bozzolo prezioso, all’ape operosa che tesse le sue cellette una a una fino a giungere alla donna che filava e tesseva la tela che uscita dalle sue mani diveniva pagina; e pagina su pagina la tela diveniva libro intessuto d’illusioni, di sospiri, di segreti e chissà quante altre realtà quelle tele racchiudevano e quanti furori, quante ansie e quanti sogni celavano, sogni che forse si realizzavano o forse rimanevano soltanto chimere e allora la tela tessuta ne raccoglieva amarezza e lacrime.

Doveva rassegnarsi la donna a questo tipo di vita o forse allora nasceva già rassegnata se fin da piccola era abituata ad occuparsi solo della casa e nel tempo libero a tessere, filare o ricamare in modo che il gioco e l’ozio non s’imponessero nel ritmo della sua giornata.

“Iniziate fin dalla più tenera età al maneggio del lino e della lana, e al governo della casa, esse non frequentavano palestre,[…] ma trascorrono il giorno in casa a filare il lino e la lana insieme alle loro madri. [1]

E proprio il telaio, questo strumento straordinario mi riporta indietro nel tempo e rivedo la nonna che, ricordo piacevolmente quando dopo lo sfaccendare quotidiano, si sedeva al telaio sempre pronto in una stanza a tessere tocco su tocco, mentre io m’incantavo ad osservare la tela che filo su filo cresceva sotto i miei occhi.

Mi confidava che per lei tessere equivaleva a rilassarsi, lasciarsi trascinare dal suo ingegno e come la navetta correva nell’intrico dei fili che, sapiente e lesta manovrava, così la sua fantasia volava e si divertiva a creare sulla tela disegni e colori di quei luoghi meravigliosi in cui si rintanava. Chissà se girovagando, non ha incontrato anche l’operosa Penelope che col “fare e disfare” la sua tela attuò una vera strategia riuscendo a condizionare persino la vita politica del suo regno nell’attesa di Ulisse, padroneggiando così anche il suo destino: “[…] finché il giorno splendea tessea la tela/superba, e poi la distessea la notte/ al complice chiaror di mute faci […]”[2].

Quella della tessitura, è un’arte così antica da non poterle dare un preciso inizio cronologico, sappiamo però che già nel Paleolitico Superiore l’uomo intrecciava le erbe vegetali per ricavarne cordami e più tardi per intessere canestri e reti per pescare. In seguito l’evoluzione dell’umanità ha caratterizzato dei cambiamenti nella vita dell’uomo passando dall’attività della caccia a quella dell’allevamento con l’uso della fibra animale intrecciata e usata per ripararsi dalle intemperie.

Da qui “l’intreccio” è divenuto metafora per indicare la vita dell’uomo, che dal vagabondare nomade come cacciatore ricoperto di pelli d’animali, passò ad una vita sedentaria caratterizzata dall’agricoltura e dall’allevamento del bestiame, con la possibilità di impiegare come fibre, i pelami dei diversi animali e la realizzazione dei primi rudimentali tessuti.

Quest’arte, sin dalla notte dei tempi è stata, di solito, arte femminile per eccellenza praticata nel chiuso della propria casa, al riparo da occhi indiscreti, e lasciata alla sua attitudine ed al suo estro. La donna salentina, in passato, conduceva vita ritirata, staccata dalle manifestazioni pubbliche maschili; un detto popolare ammoniva: “A casa a casa la figghia zzita, né a furne,né a mulini e mancu a casa ti li icini”[3]

Tessere, diveniva quindi arte quasi claustrale praticata esclusivamente nelle famiglie, le quali disponevano di un telaio, dove donne, ragazze e bambine nella quiete delle loro dimore raggomitolavano, filavano e tessevano per il fabbisogno familiare e la preparazione del corredo nuziale.

Lavorando si accompagnavano spesso col canto insieme ai “tocchi”[4] della tessitrice e il telaio così diveniva strumento che coinvolgendo le mani, i piedi e la creatività dell’artista aprendo l’ordito e battendo le trame, il ritmico movimento si trasformava in musica guidando armoniosamente l’unisono coro.

Pur essendo mansione femminile, non voleva però dire che fosse attività secondaria e di poco conto. Per tessere ci voleva maestria e la pratica di quest’arte era considerata un pregio, una nota distintiva per la donna che sapeva maneggiare il telaio. Questo strumento faceva spesso parte della dote della sposa ed era considerato quasi un mobile di lusso che non tutte le donne potevano permettersi. È’ impossibile stabilire l’epoca della nascita del primo telaio, perché essendo costruito in legno non ci sono reperti a parte i pesi che erano in ferro, ceramica o argilla, quindi gli studi sulla struttura del telaio vengono effettuati soltanto attraverso le fonti iconografiche.

Gli scavi archeologici, comunque, hanno riportato in luce frammenti di quest’attrezzo che dimostrano quanto sia antica quest’arte e di come fosse praticata anche da altri popoli: egiziani, ebrei, greci, indiani. Negli scavi etruschi le tombe femminili erano riconosciute grazie alla presenza di oggetti legati proprio alla tessitura.

Naturalmente i primi telai erano strumenti molto semplici, fatti da un’intelaiatura rettangolare di aste ricavate dai rami degli alberi e appoggiate verticalmente ad una parete.

“ […] A partire dal II millennio a.C.( in Egitto e nel vicino Oriente prima e poi in tutta l’area mediterranea) si diffonde un tipo di telaio verticale a pesi sempre più complesso e funzionale che rimarrà in uso fino all’età medievale. Il telaio a pesi, un telaio verticale costituito da due montanti di legno disposti verticalmente e da un terzo palo, chiamato subbio, fissato ortogonalmente ai primi sulla sommità della macchina. Su questo erano legati i fili che costituivano l’ordito, al fondo dei quali erano attaccati dei pesi che servivano a tenerli tesi.[…][5]

Anche nel Salento, antica terra dei Messapi, gli scavi archeologici hanno rinvenuto testimonianza di quest’antica arte

” […] In Messapia (un territorio che nell’antichità corrisponde all’odierna penisola salentina) l’esistenza di un’industria tessile di tipo domestico o artigianale è testimoniata dai rinvenimenti archeologici che coprono un arco cronologico che va dall’età del bronzo a tutta l’età romana. Si tratta soprattutto di fuseruole e di pesi da telaio che documentano le attività di filatura e di tessitura che si svolgevano all’interno delle abitazioni.[6]

Sicuramente alcune caratteristiche del telaio cambiano da zona a zona, anche se lo strumento risulta essere sempre di legno e costruito sempre con la stessa tecnica. Non sappiamo chi sia stato ad introdurre nel Salento questo antico strumento. Forse la vicinanza con l’oriente bizantino ha influito in qualche modo a farlo conoscere introducendo anche tecniche particolari di tessitura e varianti nell’uso dei colori.  Nel Salento il telaio, spesso in legno d’ulivo, raggiungeva al massimo un metro e mezzo di larghezza. La sua struttura era composta da due alti supporti laterali mantenuti insieme da due “subbi”, rappresentati da massicci assi in legno cilindrici e ben levigati.

Oltre alla struttura in legno, parti importanti del telaio erano “i subbi”, sistemati uno nella parte posteriore del telaio e l’altro nella parte anteriore. Su quello posteriore si avvolgeva “ l’ordito”, su quello anteriore la tela, quando veniva tessuta.

L’azione più complicata nella preparazione del telaio era l’orditura, che non tutte le tessitrici erano in grado di eseguire. C’erano, per questa operazione, delle donne, “le mescie ti lu urdire”, che la espletavano su commissione. L’ordire consisteva nella sistemazione, secondo uno schema e un calcolo ben precisi, di tutti i fili da cui tessendo si sarebbe ricavata la tela; infatti

“[…] la tela scaturisce da un intreccio di fili posti in senso longitudinale e trasversale; l’ordito che è l’insieme dei fili posti in senso longitudinale, dà la lunghezza della tela.[…][7]

Vi erano, sistemati quasi a metà del telaio, “i licci”, formati da un insieme di fili di spago in cui la tessitrice doveva far passare uno ad uno i fili dell’ordito, attraverso delle catenelle che lei , abilmente, formava con le dita tra gli spaghi del liccio: era questa “la chena ti lu rizzu” [8] . Davanti ai licci era sistemata “la cassa battente” formata da una struttura in legno che conteneva “il pettine”. Quest’ultimo aveva proprio la forma di un pettine chiuso, però, nelle due estremità. Era formato da tantissime listarelle di sottili canne chiamate denti del pettine che servivano per pettinare e tenere in ordine i fili dell’ordito passati attraverso i licci. Tutti i fili dell’ordito dopo essere passati uno ad uno nei licci venivano nuovamente passati, uno ad uno, nei denti del pettine.

Il pettine, inserito poi nella cassa battente, batteva la tela ogni qualvolta che la spoletta attraversava il passo a V[9] formato dai fili dell’ordito tramite la pedaliera collegata ai licci, su cui la tessitrice col semplice movimento dei piedi formava il passo a V in cui faceva passare la sciuscetta[10] che filo su filo componeva la tela.

La tessitura più semplice era la tela o panno ed era anche la più antica e quella che ogni tessitore o tessitrice apprendeva per prima. Con questo tipo di tessitura si realizzavano i tessuti usati dalla maggioranza della gente. Ciò che dava valore a questo tipo di tessuto era il tipo di filato, caratterizzato da una filatura più o meno sottile e la preziosità della materia prima che poteva essere di cotone, lana, lino, seta, bisso.

La raffinatezza della tessitura quindi dava prestigio e rilievo al tessuto ed anche a chi l’indossava. I vestiti dei nobili erano solitamente di lana o seta o lino sottile secondo le stagioni, l’altra gente vestiva solo di fibre grossolane e difettose a causa dei troppi nodi presenti sulla superficie dovuti alla congiunzione del filo o alla filatura compiuta in maniera sbrigativa.

Le stoffe tessute nel Salento con i telai in legno davano tessuti di piccole dimensioni, al massimo misuravano i novanta centimetri di larghezza. Per riuscire a comporre un lenzuolo o una coperta si aveva perciò bisogno di almeno tre teli di tessuto, per le tovaglie due, che bisognava poi congiungere a mano con molta pazienza e precisione.

In questa zona le tecniche innovative riguardo questo tipo di artigianato non giunsero mai, si usarono sempre i telai orizzontali in legno che tante famiglie possedevano ed usavano e che erano utilizzati anche nei pochi laboratori artigianali esistenti nel Salento.

I Salentini, pur spesso spronati in questo senso, non vollero mai distaccarsi dalle loro abitudini, dalle loro radici e rimasero sempre legati a questo strumento e alla sua presenza in famiglia.”[…] Con sicurezza si può affermare che, il telaio, fondando le proprie radici in una consuetudine secolare, era divenuto per le famiglie che lo possedevano una specie di totem e la tessitura quasi un rito da cui non ci si doveva distaccare. […][11]

Quest’artigianato rimase quindi legato all’ambito familiare e alla lavorazione svolta a domicilio dalle donne che contribuivano, in questo modo, al bilancio familiare. La figura predominante, legata a quest’attività, fu quella del mercante ambulante che giungeva nel Salento, distribuiva alle donne il cotone o la lana già filata e loro lo lavoravano a misura di lavoro[12]. Lo stesso, poi, passava a ritirare il tessuto nella data stabilita, e lo portava al nord per essere utilizzato nell’industria manifatturiera sia italiana, sia estera.

In seguito, nel Salento, perse interesse e rilevanza sia la coltivazione del cotone, sia la tessitura, acquistò invece importanza, la lavorazione dei tessuti grazie alla laboriosità ed inventiva delle donne che si esplicò con delle tessiture particolari e il ricamo sui tessuti. Una tessitura caratteristica fu quella delle “ cuperte azzate” cioè delle coperte sfioccate.”[…] Ciò è confermato anche da alcuni documenti del Seicento e Settecento dove questo tipo di manufatto risulta elencato anche tra i beni di famiglie nobili dell’epoca.[…][13]

Questa tipica tessitura era prerogativa delle donne di Nardò, importante centro agricolo del comune di Lecce. Le coperte erano tessute con una tecnica singolare, per cui la tessitura di un disegno appariva in rilievo. Le tessitrici neritine diventarono abili maestre in quest’arte e le loro coperte, in quel periodo, furono molto ricercate specialmente dalle famiglie nobili non solo italiane.”[…] La rinomanza di quest’artigianato neretino con il tempo si diffonde anche fuori provincia e all’estero: anche duchesse e principesse, al di fuori del regno ambivano questo tipo di manufatto e lo commissionavano.[…][14]

Questo tipo di artigianato si è completamente perso nel tempo perché le donne-maestre neretine erano molto gelose della loro arte. Solitamente lavoravano da sole, non avevano allieve, per cui nulla di questa straordinaria lavorazione è stato tramandato.

Un altro tipo di tessitura tipica salentina è quella a fiocco. Artefici di questa lavorazione sono state le nobildonne Lucia e Giulia Starace di Casamassella, frazione di Uggiano La Chiesa (LE). Lucia Starace, in particolare, impiantò nella sua villa (Villa Carmosina, Casamassella), nei primi decenni del novecento, un laboratorio di tessitura spronando le donne e le bambine del paese a frequentarlo affinché quest’arte non andasse persa e venisse col tempo valorizzata. Lei stessa si dedicò alla tessitura con passione e zelo”[…] Il ciclo di lavorazione del suo opificio era completo, comprendendo la coltivazione del cotone,l’allevamento degli animali da lana e da seta, la tintura delle fibre e la loro tessitura, […][15]

Donna Lucia volle anche modificare il suo telaio per rendere la tessitura più raffinata sperimentando tecniche diverse di lavorazione e nuovi disegni.

“[…] Nel silenzio del suo laboratorio, “Donna Lucia”studiava cercando di trovare il sistema per innovare il telaio artigianale dal punto di vista meccanico,in modo da rinnovare sempre più quest’arte, introducendo oltre a nuovi sistemi di lavorazione anche il rinnovamento delle fasi di pulitura, tintura filatura e tessitura. Dal momento che le pecore pugliesi non davano una qualità di lana, Lucia, fece allevare nella sua masseria anche quelle nere di razza “Karakul”.[16] […]”

I disegni realizzati da Lucia sono delle vere opere d’arte, alcuni sono anche firmati e datati e su quasi tutti vi è la spiegazione di come realizzare i tessuti a telaio.

“ […] Particolare interesse rappresenta la lavorazione “a fiocco” del laboratorio di Lucia Starace, che differisce da quella di Nardò, detta” tessitura sfioccata”. Il fiocco consiste in una tessitura con disegno in rilievo su base di tela liscia eseguito tessendo con il disegno davanti e inserendo un filo di ferro per tenere sollevati i fili che componevano il motivo da riportare sulla tela.[…][17]

Attualmente nel Salento i laboratori di tessitura esistenti sono stati per lo più meccanizzati. Qualche laboratorio artigianale esiste, ma è poco adoperato a causa della scarsa richiesta ed anche dell’alto costo della mano d’opera. Inoltre, oggigiorno, si preferisce l’usa e getta e poco si bada alla qualità della manifattura. Si può affermare tranquillamente che l’arte del tessere nel Salento è quasi completamente sparita soprattutto in ambito familiare.

Esistono sparsi sul territorio vari laboratori che si sforzano di non far scomparire quest’ attività. Uno di questi laboratori, ben attrezzato di antichi telai in legno, è quello della Fondazione “ Le Costantine “ a Casamassella (Uggiano la Chiesa, Lecce) che ha avviato un progetto per addestrare giovani lavoranti all’uso dei telai e dell’arte del tessere. Il programma si propone di far nascere, in chi si avvicina alla tessitura, la passione per questo antico mestiere e da lì far scaturire iniziative che contribuiscano a far rinascere l’interesse per quest’arte.

Nei vari Istituti d’Arte presenti sul territorio salentino, un tempo, la tessitura era una materia studiata e praticata. Presso queste scuole sono ancora presenti laboratori ben attrezzati con telai in legno e meccanici, poche o del tutto assenti sono le allieve che si avvicinano alla tessitura anche se ci sono state valide insegnanti che hanno provato in tutti i modi a valorizzare quest’arte. Tra le insegnanti ricordiamo Alida Castellan che tanto si è adoperata per riportare in auge la sezione di Tessitura nell’Istituto D’Arte di Parabita (Le) con innovazioni dal punto di vista cromatico ed anche artistico.

La Castellan, di origine friulana, aveva anche allestito nella sua abitazione un laboratorio in cui ella stessa tesseva, su telai tradizionali in legno, realizzando vere e proprie opere d’arte classiche e moderne.

Rivalutare l’arte del tessere, magari innovandola potrebbe essere davvero vantaggioso e proprio gli Istituti d’Arte dovrebbero contribuire ad indirizzare le ragazze verso quest’attività in modo da creare nuove opportunità di lavoro.

I nostri antenati sapevano ingegnarsi e, molto spesso era il bisogno a sviluppare la loro operosità. In periodo di crisi dovremmo imparare dalle loro esperienze e forse guardarci anche indietro e attingere a quelle conoscenze e alle possibilità che potrebbero derivarci da antiche arti che si sono perse, tra cui quella del tessere. Chissà se proprio il ridare lustro all’artigianato non potrebbe divenire la via più valida per affrontare la recessione nel modo migliore!

 

note

[1] S. GAETANI, La Grecia salentina, in “Almanacco Salentino 1968-1969”, a cura di Mario Congedo e Vittorio Zacchino, Edizioni Nuova Apulia, Arti Grafiche Toraldo & Panico, Cutrofiano, 1968, pp. 117-123.

[2] Odissea, libro II, Traduzione di Ippolito Pindemonte (1753-1828)..

[3] Sempre in casa deve stare la donna che ancora non è sposata, non deve recarsi né al forno, né al mulino e ancora meno a casa dei vicini

[4] “toc-toc” faceva la tessitrice ogni volta che lanciava la spoletta e batteva il filo.

[5]  C. NOTARIO, “L’arte del tessere nel Salento di 2500 anni fa, pp. 128-129, in A. Monte – M. G. Presicce, “ L’arte della tessitura nel Salento”, Narni,.2010, pp.127-139.

[6] C. NOTARIO, Ibidem,  pp.132.

[7] A. MONTE M. G. PRESICCE, L’arte della Tessitura nel Salento, cit., pp.30.

[8] La piena del liccio.

[9] Spazio in cui passava la navetta.

[10] Navetta.

[11] A. MONTE M. G. PRESICCE, L’Arte della Tessitura nel Salento, cit., pp. 56

[12] Secondo la quantità.

[13] A. MONTE M. G. PRESICCE, Ibidem, pp. 58.

[14] A. MONTE M. G. PRESICCE, Ibidem, pp.61.

[15] A. MONTE M. G. PRESICCE, L’Arte della Tessitura nel Salento, cit., pp.81.

[16]A. MONTE M. G. PRESICCE, cit., pp.81.

[17] A. MONTE M. G. PRESICCE, cit., pp.100.

 

 

 

Pubblicato da Maria Grazia Presicce

Maria grazia Presicce vive a Lecce. Artista e autrice di libri di Narrativa per l’infanzia adottati nelle scuole. Scrive su diversi quotidiani e riviste locali. Si occupa di tradizione e ricerca sul territorio. E’ socia della Fondazione Terra D’Otranto che si occupa di Cultura Arte e Tradizioni in terra d’Otranto e nel Salento. ( www.Fondazioneterradotranto.it) Ha pubblicato una ricerca svolta all’interno dell’IBAM ( Istituto per i beni archeologici e monumentali) di Lecce del CNR (Consiglio Nazionale delle ricerche ) : “ L’arte della tessitura Nel Salento l’industria tessile casalinga tra memoria, conservazione e valorizzazione ” di Antonio Monte e Maria Grazia Presicce, CRACE edizioni. Ultima pubblicazione " CCE SSI MANGIA CRAI A DONNAMENGA" EDITRICE MILELLA, LECCE. Il racconto è ambientato a Donna Menga una masseria fortificata dell’Arneo importante territorio salentino dal punto di vista ambientale e luogo di vita contadina ricca di esperienze e valori sociali del ‘900.

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