ERA IL 1945… LA SIGNORA MARIA

 PORTO CESAREO LECCE PH MGP

 

Mi accoglie lieta la signora Maria. È seduta in vestaglia vicino al tavolo, monda  della verdura.

La saluto e siedo anch’io. Mi viene spontaneo aiutarla nel suo tranquillo fare. Le chiedo come sta. So che non è stata molto bene “ ora sto meglio” m’assicura.

–  È caduta in casa?   

– No, no figghia mia. A fiate, comu si dice “cu faci bene, pati pene.[1]” Son caduta per strada per accompagnare un turista che non riusciva a trovare un B&B qui vicino. Al ritorno sono inciampata. Mi sono rotto due costole. Sono quasi due mesi che non esco. All’inizio son dovuta stare a letto quasi immobile. Avevo tanto dolore.

Le espongo il motivo della mia visita – mi piacerebbe sapere qualcosa di più sul periodo in cui  ha  conosciuto mio nonno e   mia madre. Le va di parlarne? Se è stanca, possiamo vederci un’altra volta.

– No no. Mi fa piacere ricordare quei tempi. Non immagini quante volte ho chiesto notizie di tua madre e delle tue zie che avevo conosciuto allora. Nessuno riusciva a darmene… ma tanto ho fatto che alla fine ci sono riuscita. È stata una gioia ritrovarle! Non sapevo della morte di zia Maria.  

La signora Mimina ha quasi novant’anni. Dopo aver ritrovato mia madre e mia zia, di tanto in tanto s’incontravano. Vecchie amiche che si rivedevano. Ne avevano di ricordi!  

L’immagine che mi sovviene è di tutte e tre sotto il gazebo di fronte alla casa nella masseria di mia madre mentre, tranquille, dopo aver lungamente chiacchierato terminavano la giornata recitando il Santo Rosario.

Avevano tutte e tre, quasi la stessa età.   La signora Mimina è più piccola di qualche anno. Ha un viso e un sorriso dolcissimo. Mi racconta del periodo della sua gioventù alquanto complicata, senza dolenza, senza amarezza, né rimpianto. – Era così allora figghia, tutto però si affrontava con santa pazienza e tanta serenità!

 – Com’era nonno Pompeo sul lavoro?

– Era buono. Una brava persona… – si ferma un attimo – Quando arrivavamo nell’oliveto ci faceva trovare il fuoco acceso per riscaldarci. Fatte le llee,[2] ad ognuna distribuiva una pietra calda che mettevamo in tasca e che ci cambiava di tanto in tanto quando si raffreddava.  

Non riesco a capire cosa sia la llea. Mi spiega che erano le lavoranti divise in gruppi di numero pari per ogni rapa di albero. – Ogni llea – spiega – aveva il nome di una ragazza del gruppo.

 All’epoca, nonno Pompeo era affittuario della masserie Lu trappitu e Curti russi[3].

 Le due Masserie, vicinissime tra loro, sono situate nell’Arneo e prima del frazionamento dei latifondi da parte dell’Ente Riforma, possedevano vaste estensioni di oliveti. Il proprietario delle due masserie abitava in un’altra tenuta a pochi chilometri e per comunicare col nonno si serviva di un messo che, in bicicletta, recapitava i messaggi.  

– Era mio nonno che veniva a prendervi da Porto Cesareo?- Chiedo, sicura che fosse così.

– No no. Arrivavamo a piedi all’oliveto della masseria.   

– A piedi? – Mi meraviglio.  

– Sì sì, a piedi. Sempre andavamo a lavorare a piedi dovunque ci chiamavano. Partivamo in gruppo di mattino presto, il sole ci sorgeva per via. Dopo la giornata di lavoro tornavamo a casa.  Ogni giorno era così. A volte si arrivava a casa già buio, si faceva appena in tempo a lavarsi, cenare e poi andare a letto perché il mattino dopo si doveva tornare al lavoro.  

– E quando pioveva?

– Se cominciava a piovere nella notte, al lavoro non si andava. Si stabilivano al principio le regole e il proprietario dell’uliveto, quando non ci vedeva arrivare, capiva che aveva piovuto. Una volta un acquazzone ci prese mentre raccoglievamo le olive proprio nell’uliveto di tuo nonno. Lui allora ci accompagnò alla masseria, a casa sua, le tue zie e la tua mamma ci fecero asciugare e cambiare. Ci diedero i loro vestiti per tornare a casa .

Sorride divertita – finanche le loro mutande ci fecero mettere! Eravamo proprio suppa suppa[4]… dal cielo chiuìa[5] a torrenti. Pensa che la forza dell’acqua faceva rotolare le pietre sulla strada. Quella volta si allagarono tutte le campagne e ritornammo a casa dalla strada principale. Il tragitto da lì era più lungo e a Cisaria[6] arrivammo ca era propriu scurutu[7].

Mi appunto quello che mi racconta e lei mi guarda con i suoi occhi vispi e sereni. Rifletto che la strada che percorreva non era breve, doveva essere davvero una bella scarpinata!   Mentalmente cerco di calcolarne la distanza, secondo me più di dieci chilometri. Lei allora, forse immaginando il mio pensiero – naturalmente non si andava sempre per le vie principali, c’erano dei percorsi cchiu curti[8] in mezzo alla campagna. Prendevamo la via per Veglie e ad un certo punto spaccavamu a mienzu  alli fondi[9].

– Comunque è tanta strada e farla ogni giorno doveva essere davvero stancante!

Mah figghia! Non era poi così sfibrante. Eravamo tutte ragazze, con noi c’era anche la capu antera, la nunna Ndata,[10] che ci guidava e organizzava la giornata. Non mi ricordu ca ndi straccavamu cchiu ti tantu[11]. Camminavamo svelte e con allegria. Parìamu auceddhi! Tante fiate[12] cantavamo.

La osservo… le piace ricordare mentre le mani continuano a mondare.

– Quando andavamo a raccogliere le olive da tuo nonno c’erano i tedeschi; erano accampati vicino all’oliveto. Noi, però, non li abbiamo mai visti. La tua mamma e le zie ci dicevano che alcuni tedeschi andavano spesso a cena o a pranzo da loro e che erano delle bravissime persone.

– Sì sì. Anche a me mia madre  ha raccontato di alcuni tedeschi invitati a pranzo o a cena dai nonni e che uno in particolare, un colonnello di nome Fritz, era il più assiduo.   Mia madre e mia zia ricordavano che soffriva tanto per la lontananza dalla famiglia e che a volte piangeva mostrando le foto della moglie e della figlioletta.  

 Le domando in che modo vivevano a Porto Cesareo e com’era la zona a quei tempi.

– C’era solo la torre e lì vicino, prima della costruzione delle case, c’erano delle baracche di legno dove i pescatori mintianu gli attrezzi per pescare e si cambiavano quando tornavano dalla pesca tutti muddhati[13]. – Continua – Intorno alla torre c’era solo mare, qualche caseddha cchiu ddha[14], la chiesa e poi tutta macchia.-

Come hanno fatto i pescatori a costruire le prime case?

– Il terreno intorno alla torre era demanio. Le terre più discoste avevano dei proprietari. Mio padre, insieme a tanti altri pescatori, decise di comprare un pezzetto di terra per costruire la casa mettendosi d’accordo con una vedova di Nardò che aveva un appezzamento di terreno da vendere. I soldi li davano a poco a poco, però intanto si cominciò a fabbricare la casa comu megghiu si putia[15]. La “signora vedova” veniva ogni quindici giorni per riscuotere la somma dovuta da ogni pescatore. Quando arrivava, faceva girare un banditore per avvertire dove aspettava i pescatori per il ritiro del denaro. Una mattina d’inverno arrivò all’improvviso in un orario insolito. Il banditore gridava che la signora aveva urgenza di parlare con i pescatori debitori. Quando tutti si riunirono, comunicò che i soldi ricevuti bastavano e che il signore che l’accompagnava era un notaio con cui avrebbero firmato l’atto di vendita. Finalmente diventavano proprietari del pezzo di suolo e della casa.  È  veru ca eranu casiceddhe tra mare, macchia e petre, costruite alla megghiu una stanza alla volta,  ma  dintare proprietari cussì all’insaputa  fu daveru nu priesciu pi tutti[16].

Riprendo il discorso.

  – Durante la stagione invernale, mi hai detto che le barche non uscivano per la pesca e i pescatori cosa facevano allora? Come vivevate?  

      – A Novembre, quando non si usciva più per pescare, le barche le tiravano in mezzo alla piazza; vicino alla torre si allagava di meno quando il mare era in tempesta. La zona intorno alla torre restava comunque la più protetta dalla burrasca perché c’erano le isole intorno, dalla parte opposta invece, si allagava sempre. – Si blocca e cerca di mettere a punto i pensieri e le immagini. – – Uh! Figghia! Sapissi quantu ncera da fare[17]…Si costruivano le nasse, si rimagliavano le reti e se ne facevano di nuove.  

– Fabbricavate voi le nasse?

– Sì sì. Pure io facevo le nasse e le reti. Le reti le facìamu  con le maglie di varie misure secondo il pesce da pescare. Naturalmente, durante l’inverno,  ci  lu tiempu era bbuenu[18]  si pescava qui vicino.   Quando cominciava la buona stagione  si andava a pescare nel mare alto. Per la pesca si spingevano fino a Gallipoli o verso Taranto.  

– Dove prendevate il materiale per fare le nasse?

– Le nasse li faciàmu cu li sciunchi ca si cugghìanu[19] nelle zone delle paludi. Tutta la zona ti Cisaria era in prevalenza paludosa e chena ti sciunchi e di malaria! [20]  C’era tanta malaria a quiddhi tiempi figghia! [21]Tutta la zona poi era sempre battuta dal vento e dalle mareggiate. I pescatori che avevano cominciato a costruire da quella parte, alla fine decisero di spostarsi dalla parte opposta alla torre, verso  la  Strea e fabbricare lì le loro case. Sull’isoletta di fronte alla Strea, quella attaccata alla terra, ficera pe prima na chiesetta[22]  poi cominciarono ad ausare[23] le case, propriu a ddo mò[24] passa la strada litoranea. Na notte però rriau na tempesta, il maremoto dissero… spazzò via la chiesetta e ricoprì isola e terreni d’acqua. Così l’idea di trasferirsi dall’altra parte declinò e rimanemmo tutti qui.   Eh! Figghia sapessi che periodo difficile fu quello!  Grazie a Mussolini poi, la situazione migliorò, fu lui a far bonificare la zona con i bacini, incanalando l’acqua e finalmente ci purtau puru[25] la prima fontana. In quel tempo, finalmente, ci fu lavoro anche per i pescatori e tanti manovali venivano anche da Leverano, Avetrana, Veglie per lavorare sotto la direzione di un ingegnere di Bari che, per sovrintendere ai lavori, si stabilì qui con due sorelle zitelle.  

  – Anche i manovali rimanevano a Porto Cesareo a dormire?

Ncerti sì[26]. Altri, quando spicciavanu la sciurnata[27], rientravano al paese e tornavano la mattina dopo. Mi ricordo ca puru ca tiniane li scarpe[28], le mettevano solo in caso di necessità e per andare e venire le appendevano al collo e caminaune scausi[29] per non consumarle.

L’ascolto in devoto silenzio mentre continuo ad appuntarmi il suo dire. Un pensiero mi sovviene riguardo le donne in gravidanza – c’era qui una mammana che aiutava le donne a partorire? – Le chiedo allora.

– Mammana! Figghia mia, qui non c’era nulla di nulla. Sulamente mare, petre, acqua e tanti zinzali[30].  

Mi guarda con un sorriso, sorpresa della mia stupida domanda.  

– Eravamo poche famiglie e quando una donna doveva partorire ritornava al paese.   Una piccola casetta, anche di una sola stanza, l’avevamo anche noi a Liranu[31].  

– Dopo la bonifica migliorò la vita  per voi?    

Eh figghia mia! La vita cangiau propriu. Stesimu tutti meiu[32]!  E i pescatori continuarono a costruire le loro case. C’erano sempre i tedeschi, ma qua a Cisaria no si idianu mai[33]. La bonifica dei bacini continuava. – Si ferma un momento – Poi, dopu lu bombardamentu ti Liranu cangiau tuttu[34] e giunsero gli americani.  I tedeschi allora scappavano da tutte le parti per raggiungere le stazioni nei vari paesi.   

Sono vividi i suoi ricordi.

 – Una volta, di mattino presto, mentre andavamo a lavorare, ne incontrammo un gruppo che, a piedi, cercava  di raggiungere la stazione dell’Avetrana. Alcuni erano stracarichi di zaini e valigie, ci offrimmo di aiutarli giacché facevamo lo stesso tragitto.   

– Non aveste paura?  

– Paura? No no. Ddhi  purieddi[35] erano sfiniti e impauriti. All’inizio non volevano neppure che li aiutassimo. Capivano poco l’italiano.  Insistemmo e alla fine accettarono. Non finivano più di ringraziarci dopo. Figghia… li tedeschi eranu cristiani comu nui[36]. Anche qui c’è gente cattiva e buona. Tuttu lu mundu è paese[37]!  

Mi perdo nel suo dolcissimo sguardo. Quando ci siamo sentite la seconda volta al telefono, mi aveva detto preoccupata “figghia mia non nbogghiu spicciu sugli giornali però! [38]” Mi era venuto da ridere. Le avevo assicurato che il suo nome non sarebbe apparso – allora quando scriverò, la chiamerò signora Maria. Va bene questo nome?

– Sì sì! Qualunque nome va bene… signora Maria però mi piace.

Le confermo che non metterò il suo vero nome.

La vedo rassicurata. Le ho regalato il libro sulla vita di San Giuseppe da Copertino bambino. Le ha fatto piacere, lo rigira tra le mani – sai che San Giuseppe da bambino lo chiamavano uccaperta[39]? – mi dice.

– Lo so, lo so. – Le dico che per scrivere il racconto ho dovuto fare delle ricerche e mi sono documentata recandomi sui luoghi del Santo bambino per verificarle. È  proprio contenta del mio dono.

 – Mi cuntava la nonna – comincia a narrare – che San Giuseppe da bambino veniva invitato spesso nel palazzo di una famiglia nobile di Copertino, la fam…… perché aveva una bella voce e cantava benissimo le canzoni di chiesa. Una volta, dopo aver finito di pranzare, i signori gli chiesero di cantare e lui volgendo lo sguardo ad un quadro di Santa Cecilia con l’arpa, appeso nella sala “ se Cecilia suona, io canterò ”disse. Ticiane ca daveru[40] la sala fu invasa da una dolcissima musica e Giuseppe così cominciò a cantare. Quel Palazzo, a Copertino, esiste ancora e anche il quadro mi è stato detto che è lì a testimonianza ti quistu miraculu.

  Vorrebbe continuare a narrarmi altre storie del Santo. La riporto piano piano sull’argomento che m’interessa – mi stava dicendo che avete aiutato i tedeschi con le valigie, su quale via eravate?  

– Sulla strada per l’Avetrana. Ci recavamo nell’uliveto di un’altra masseria, lu Curmunese, che si trova da quelle parti, sempre per raccogliere olive.  

– Solo le olive andavate a raccogliere?

– No no. Andavamo a raccogliere anche legumi: piseddhi, tolica, ciciri, fae[41] e anche cotone.

 Una volta ci chiamarono per raccogliere piselli in una zona verso Nardò, vicino al mare. Chi ci aveva contattato aveva stabilito di darci quattordici lire per la giornata. Quasi il doppio di quanto davano allora. Alla fine della giornata, però, voleva pagarci solo sette lire a testa. Non le accettammo e invece di tornare a casa ci recammo a piedi a Nardò alla Lega dei lavoratori. Era da poco che esisteva qui questa specie di sindacato. Ne facemmo di strada quel giorno! Però la spuntammo e, il proprietario, dovette pagarci quanto stabilito!       

– Ricordi l’anno?

– Se non sbaglio era il 1944, no no forse dopo. Topu sì sì figghia, topu. Li americani eranu già rriati. Cu le date a fiate mi sbagliu…[42]  

Il telefono squilla. S’alza per rispondere. Mi guardo intorno.  Ci son tante foto sistemate in una cornice, altre più antiche sono messe in dei portafoto poggiati su un mobile.  Lei torna.  Vede che sto guardando due foto antiche unite a mo’ di libro.

 – Siamo io e mio marito. È stato un uomo meraviglioso. Lavoratore e buono come il pane.  

– E anche un bell’uomo – aggiungo – Anche lei è  molto bella.  Il tempo non l’ha cambiata.

    Quelli invece sono i miei figli quando si sono sposati e questi i miei nipotini. Mi vogliono tutti bene.   

Le sorrido. Come si può non amare una persona così?MGP

 

 

 
 

[1] A volte per fare bene patisci pene.

[2][2] Prof. A. Polito: Dal latino alligare, italiano allegare/alleare. ;L’Allea dal latino sostare – la llea

[3]  La masseria Trappeto è chiamata così per   un antico frantoio oleario, all’epoca funzionante, che ancora però esiste intatto nei sotterranei della torre cinquecentesca. Corti rossi è così chiamata invece per le mura rosse che la circondavano e che indicavano pericolo. La masseria, infatti è stata il primo ospedale per gli animali. Lì venivano ricoverate, tenute in quarantena e curate le bestie malate.)

[4] Completamente inzuppate

[5] Pioveva

[6] Porto Cesareo

[7] Completamente al buio

[8] Più brevi

[9] Tagliavamo tra le campagne

[10] La signora più anziana che le guidava

[11] Non ricordo che ci stancavamo molto.

[12] Sembravamo uccelli. Spesso […]

[13] Bagnati

[14] Qualche casetta più in là

[15] Si cominciò a costruire come meglio si poteva

[16] E’ vero che erano casette tra mare macchia e pietre costruite alla buona una stanza alla volta, ma diventare proprietari fu davvero una gioia per tutti.

[17] Sapessi figlia mia quanto c’era da fare

[18] Se il tempo era bello

[19] Si costruivano con i giunchi  raccolti

[20] Piena di giunchi

[21] A quei tempi figlia!

[22] Costruirono per prima una chiesetta

[23]  Letteralmente, Ad alzare ( a costruire)

[24] Proprio dove adesso

[25] Fece installare anche

[26] Alcuni sì.

[27] Quando finivano la giornata

[28] Pur avendo le scarpe

[29] Camminavano scalzi

[30] Zanzare

[31] Leverano

[32] Si figlia! La vita cambiò tanto! Migliorò per tutti

[33] A Porto Cesareo non si videro mai.

[34] Dopo il bombardamento a Leverano tutto cambiò

[35] Quei poveretti

[36] Figlia, i tedeschi erano persone come noi.

[37] Tutto il mondo è paese!

[38] Figlia mia non voglio finire sui giornali, però!

[39] Bocca aperta

[40] Si diceva

[41] Piselli, cicerchia, ceci, fave

[42] Dopo, si figlia dopo. Gli americani erano già qui. Ogni tanto con le date mi sbaglio…

Pubblicato da Maria Grazia Presicce

Maria grazia Presicce vive a Lecce. Artista e autrice di libri di Narrativa per l’infanzia adottati nelle scuole. Scrive su diversi quotidiani e riviste locali. Si occupa di tradizione e ricerca sul territorio. E’ socia della Fondazione Terra D’Otranto che si occupa di Cultura Arte e Tradizioni in terra d’Otranto e nel Salento. ( www.Fondazioneterradotranto.it) Ha pubblicato una ricerca svolta all’interno dell’IBAM ( Istituto per i beni archeologici e monumentali) di Lecce del CNR (Consiglio Nazionale delle ricerche ) : “ L’arte della tessitura Nel Salento l’industria tessile casalinga tra memoria, conservazione e valorizzazione ” di Antonio Monte e Maria Grazia Presicce, CRACE edizioni. Ultima pubblicazione " CCE SSI MANGIA CRAI A DONNAMENGA" EDITRICE MILELLA, LECCE. Il racconto è ambientato a Donna Menga una masseria fortificata dell’Arneo importante territorio salentino dal punto di vista ambientale e luogo di vita contadina ricca di esperienze e valori sociali del ‘900.

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